giovedì 23 aprile 2015

"PRO ARMENIA" (Livorno,26 aprile 2015) UN CONTRIBUTO DEL PROF. BRUNO DI PORTO

In occasione della presentazione del volume "Pro Armenia", il 26 aprile 2015 alle ore 16.30 (Sala degli Specchi,g.c.,Villa Mimbelli Livorno), anticipiamo il prezioso contributo che il Prof. Bruno Di Porto ha voluto gentilmente donarci e per il quale lo ringraziamo. Benè Berith "Isidoro Kahn" ************************************************************ DAL METZ YEGHERN, IL GRANDE MALE, ALLA SHOAH Ebrei ed armeni si sono conosciuti fin dall’antichità con reciproche menzioni, o tracce di reciproca individuazione, nelle rispettive culture. Già Ashkenaz, figlio di Gomer, in Genesi (10, 3), nome poi esteso ad una vasta area geografica dell’Europa orientale, è considerato il capostipite di genti armene od affini, per conferma del termine con cui gli stessi armeni si sono, almeno in un certo tempo, chiamati. Anche Uz, il paese di Giobbe, è individuato da commentatori in Armenia, una regione montuosa dell’Asia Minore. Sul monte Ararat, nel racconto biblico, si posò l’arca di Noè (Genesi, 8, 4), che corrisponde per altimetria e per nome al più antico regno armeno di Urartu. All’apogeo della loro monarchia, nel I secolo avanti Cristo, forze armene si spinsero, con il re Tigrane, attraverso la Siria, fino alla terra di Israele, ed avrebbero portato prigionieri ebrei, secondo lo storico Mosè di Corene, nel loro paese, dove in effetti giunsero, ben da prima, numerosi immigranti ebrei, nel gran quadro della diaspora ebraica, con reciproche influenze e probabili commistioni. Lo stesso storico, sopra citato, attribuisce origine ebraica ad una dinastia feudale armena e ad altri gruppi. L’Armenia, in uno spazio compreso tra Anatolia, Persia e Transcaucasia, passò alternandosi vicende di indipendenza e dominazioni straniere, per l’espansione di maggiori potenze e invasioni di altre popolazioni. Riuscì a mantenere l’autonomia ben più a lungo degli ebrei, fino alla spartizione tra la Persia e l’impero romano. Cadde, poi, sotto il dominio arabo e l’ottomano, cui ne disputò e sottrasse una porzione prima, nuovamente, la Persia, poi la Russia. Parte degli armeni si spostò frattanto verso ovest e ricuperò l’indipendenza in Cilicia con un regno di Piccola Armenia, che conobbe un periodo splendido, finendo però nel 1375 sotto i turchi selgiuchidi e quindi nell’Impero ottomano. Politicamente sottomessi, gli armeni mantennero loro basi etniche sul territorio e nel contempo si sparsero, come già da prima, in una vasta diaspora, a somiglianza degli ebrei anche per duttilità ed intraprendenza commerciale. Serbarono la propria lingua e cultura, fecondata da una intensa assimilazione del Cristianesimo con propria Chiesa, di origine apostolica (in particolare vanta l’origine da Giuda Taddeo, seguace e familiare di Gesù) e di caratterizzazione miafisita (relativamente simile ma distinta dal monofisismo), per affermazione di una sola natura nel Cristo. Importante presenza armena è in Israele con il patriarcato e proprio quartiere in Gerusalemme. Un minore chiesa armena è cattolica, facendo capo a Roma. Importante è stata e tuttora è la presenza armena in Italia, specie a Venezia, a Ravenna, a Roma,in Sicilia, a Livorno, dove gli armeni furono invitati a risiedere dai Medici, contemporaneamente agli ebrei. Reliquie di Gregorio Illuminatore, cui si deve la conversione del regno armeno, sono venerate in più città italiane. Tra memorie religiose, pregi culturali, attivismo commerciale, degli armeni e intorno agli armeni in Italia, si segnala per allegro esotismo, una caricaturale imitazione del mercante e del linguaggio armeni nella commedia di Goldoni La famiglia dell’antiquario, dove Arlecchino si improvvisa appunto armeno con finali di parola in ara era ira, per imbrogliare l’ingenuo conte. Nell’impero ottomano, che accolse gli ebrei esuli dalla Spagna, convivevano meglio che in Europa nazionalità e religioni, ma la situazione si aggravò per gli armeni sul finire dell’Ottocento e agli inizi del Novecento, per la stretta del governo verso le autonomie, nella crisi di decadenza e di progressivo sfaldamento, con la perdita ad ovest in Africa del Maghreb, per conquista francese, poi dell’Egitto per occupazione inglese, e di gran parte del dominio nei Balcani, a seguito della guerra con la Russia, conclusa dalla pace di Santo Stefano (1878). Contraccolpo interno fu la reazione autoritaria e di segno panislamico sotto il sultano Abdu al- Hamid, che, tra varie repressioni, ebbe il culmine tragico nei massacri degli armeni durante gli anni 1895 – 1897, per stroncare ogni loro fermento. La situazione peggiorava anche in Russia, dopo l’assassinio dello zar Alessandro II (1881), seguito dai pogrom contro gli ebrei e dal libero sfogo lasciato alle violenze dei tartari contro gli armeni, simili a quelle dei curdi in Anatolia contro gli stessi armeni. L’opposizione progressista all’assolutismo di Abd ul - Hamid prese forma nel movimento dei Giovani Turchi, in cui militarono taluni ebrei e forse più armeni, ed il sultano venne deposto nel 1908, ma non ne seguì un sollevo nella condizione degli armeni e neppure un progresso nella politica ottomana verso il sionismo per la Palestina. L’impero ottomano subì un altro scacco, nel 1911 – 12, per la guerra mossa dall’Italia, che occupò la Libia, e seguì di filato, per ripercussione, la sfida della Lega balcanica, che portò all’estromissione ottomana da quasi tutti i possessi in Europa. Il vecchio impero ottomano permaneva vasto nell’Asia anteriore, salvo le influenze tedesca, francese ed inglese, che se da un lato vi portarono elementi di progresso (specie le ferrovie) per altro verso lo minavano con le loro ambizioni, mirando a modificarlo e a spartirlo. La Sublime Porta, come il governo imperiale turco soleva chiamarsi, venne ad intendersi meglio con la Germania, e il 2 agosto 1914, all’inizio della Grande guerra, ci si alleò formalmente. La Turchia restava per il momento neutrale, ma con misure favorevoli alla Germania, e le potenze dell’Intesa il 5 novembre le dichiaravano guerra, anche per assicurarsi il passaggio navale degli stretti. Il conflitto, di enormi proporzioni e lunga durata, provocò, oltre le perdite militari, repressioni e rappresaglie ai civili nei territori occupati. Impressionante fu il caso del Belgio, invaso dai tedeschi e sottoposto a crudele trattamento. In ogni paese belligerante incombeva il sospetto verso connivenze interne con i nemici, ed il clima bellico di inesorabile ostilità accentuò il livore verso minoranze invise. Così, nel corso della guerra, su fronti opposti, ripresero gli orrori di fine Ottocento verso gli ebrei nell’Europa orientale, accusati di stare dalla parte dei tedeschi, e verso gli armeni, accusati di stare coi nemici della Turchia. Per gli ebrei, citiamo dall’opera di Martin Gilbert, La grande storia della prima guerra mondiale: «A mano a mano che i tedeschi avanzavano nelle province polacche dell’impero arista, la popolazione locale infieriva contro gli ebrei, che pure vivevano in quelle terre da secoli. Botteghe, case e sinagoghe vennero saccheggiate. Nella zona occupata dalle divisioni russe, a quanto riferì l’ambasciatore francese a Mosca, Paleòlogue, ogni giorno venivano impiccati ebrei,accusati di parteggiare per i tedeschi, di cui si sarebbero augurati la vittoria. Che 250.000 ebrei prestassero servizio nell’esercito russo non bastava a vincere i pregiudizi. Centinaia di migliaia di ebrei furono costretti ad abbandonare le proprie case a Lodz, Piotrokov, Bialystok, Grodno, e in altre decine di città e villaggi. Si misero in cammino, portando on sé quel poco che un carretto e un fagotto potevano contenere, e si diressero verso est, rifugiandosi nella profonda Russia, lontano dal fanatismo delle zone dove infuriava la guerra». Altri ebrei, invero, salutarono come liberatori, al confronto, i tedeschi e gli austriaci, nelle cui file combattevano loro correligionari, e ciò non bastava peraltro a diminuire l’antisemitismo, abbondante in Germania e in Austria. Un episodio di discriminazione, denunciato da deputati ebrei al Reichstag fu il censimento delle appartenenze confessionali tra i giovani occupati nelle industrie di armamenti per stabilire quanti fossero gli ebrei assegnati a quel lavoro piuttosto che al fronte. Le autorità ottomane, tradizionalmente tolleranti verso i sudditi ebrei nel complesso dell’impero, misero però al bando il sionismo, con gravi conseguenze sul nuovo ishuv (popolamento) in Palestina, espulsione dei pionieri cittadini degli stati dell’ Intesa, arresti e trasferimenti di altri ebrei, sebbene l’alleata Germania mantenesse un rapporto con la componente tedesca del movimento sionista, che cercava logicamente l’appoggio del proprio paese per giovare alla causa, come aveva fatto da prima della guerra. Prevalse, tuttavia, per il futuro del sionismo il rapporto con l’Intesa, tra l’altro con la formazione di un corpo militare ebraico, e con il fondamentale documento della Dichiarazione Balfour. La persecuzione sistematica, spinta all’annientamento di massa, toccò nell’Impero ottomano, dal 1915, in ripresa di quanto era avvenuto vent’anni prima, al popolo armeno, tale da configurarsi nei termini del genocidio, definizione coniata dal giurista ebreo Raphael Lemkin (1901 – 1959), nato in Polonia, dedito fin da giovane allo studio ed alla sensibilizzazione in materia, da prima della Shoah, in cui perse gran parte della sua stessa famiglia, con il rapporto del 1944 Axis Rule in occupied Europe, e quindi nel dopoguerra, impegnandosi per la convenzione internazionale, approvata nel 1951, sulla prevenzione e la repressione del delitto di genocidio. Il peggio venne,come dicevo, durante la prima guerra mondiale, dopo l’avvento al potere del comitato Unione e Progresso, vertice del movimento dei Giovani Turchi, che nel liberale inizio, aveva acceso le migliori speranze, con partecipazione di armeni e di ebrei (notevole il ruolo di Emanuele Carasso), e in collegamento massonico con ambienti italiani: si veda Luca G. Manenti, Massoneria italiana, Ebraismo e movimento dei Giovani Turchi, in «La Rassegna Mensile di Israel», LXXVIII, n. 3, settembre – dicembre 2012. La stretta autoritaria, di sospetto e terrore, avvenne in reazione alla fine del dominio ottomano in Europa e in Africa, e nel quadro delle crescenti tendenze nazionaliste nella competizione internazionale, manifestate nell’ambito delle stesse massonerie; per il nostro più vicino scenario, dalla guerra italo - turca per la Libia alla guerra mondiale. Con un estratto del suo Dossier sul genocidio armeno, Lemkin è uno degli autori che compaiono nel libro Pro Armenia. Voci ebraiche sul genocidio armeno, pubblicato dalla Giuntina nel centenario dell’inizio di quel misfatto ed in vista del convegno che si terrà in Roma dal 25 al 28 maggio prossimi. Il volume è curato da Fulvio Cortese e Francesco Berti, con la prefazione di Vittoria Arslan. Gli altri autori, di generazione precedente e perciò intervenuti durante o poco dopo i massacri degli armeni, sono Lewis Einstein (1877 – 1967), diplomatico e studioso statunitense, André Mandelstam (1869 – 1949), giurista e a suo tempo ambasciatore russo a Costantinopoli, e Aaron Aaronsohn (1876 – 1919), pioniere sionista, agronomo cui si rivolse il governo ottomano per combattere l’invasione di locuste, attivo nella organizzazione segreta N.I.L.I. (acronimo di Nezach Israel Lo Ishaker, Gloria di Israel non deluderà, Samuele I, 15, 29) in contatto con gli inglesi per la liberazione di Erez Israel dal dominio turco. Il testo di Lewis Einstein comparve nel gennaio 1917, col titolo The Armenian Massacres, in “The Contemporary Review”. Parte da una precedente consuetudine di tollerante convivenza tra turchi ed armeni, sconvolta al tempo di Abd ul Hamid, dalla guerra con la Russia, fino al furore dei Giovani turchi, che addussero la vendetta per la mobilitazione degli armeni russi nella nuova guerra contro la Turchia, con adesione di volontari armeni turchi, accorsi, a loro volta, per vendicavare i patimenti subiti. Einstein chiarisce la responsabilità della Germania, che fermò l’iniziato massacro dei greci, per interesse alle relazioni con quel paese, e lasciò invece commettere quello degli isolati armeni. Accusa la determinazione personale di Mehmed Talaat Bey nella gestione dall’ alto degli eccidi, istigando, oltre i curdi, la peggiore feccia di comuni criminali, e rende invece il merito di funzionari turchi, che a costo di essere rimossi, si astennero dall’eseguire gli ordini. Descrive le modalità dell’eliminazione di massa, cominciata, a partire dal 24 aprile 1915, con l’attacco e depredazione dell’élite armena, fino all’esito di circa 600.000 morti, attraverso l’ allontanamento dalle abitazioni, con un minimo di bagaglio, e le marce forzate su lunghe distanze, senza viveri e acqua, tra assalti, annegamenti, uccisioni degli uomini, stupri delle donne, disperazione di genitori che cercavano di affidare i bambini a persone misericordiose lungo la traversata. Il tutto era previsto e coordinato da una struttura operativa, detta Organizzazione speciale, tra i cui capi era l’ideologo della pulizia etnica era Selanikli Mehmet Nazim Bey, un nomen omen. La ribellione delle vittime fu rara, per l’impari rapporto di forze, essendo essendo stati i giovani robusti reclutati nell’esercito, sottoposti a dura disciplina e adibiti, disarmati, ai servizi pesanti. André Mandelstam, nel libro La Turquie, pubblicato nel 1918, delinea il quadro di un impero dispotico, sfruttatore, corrotto, basato su una stirpe turca dominante (milleti hakimé) e utilizzante certe etnie per sopraffarne altre. I Giovani Turchi, che nel 1909 deposero il tiranno Abd ul Hamid, esordirono come nuovo elemento di progresso, intenzionato a compiere le riforme, cui il governo ottomano si era impegnato con le potenze europee, specialmente per la tutela delle oppresse minoranze; ma, giunti al potere, rapidamente rivelarono la continuità e finanche il peggioramento rispetto al governo precedente, riprendendone l’ideologia panislamica. Destituiti per breve tempo, nel 1912, da una inadeguata opposizione liberale, tornarono al potere nel 1913 col sostegno dell’esercito e la direzione di un crudele triumvirato, formato dai pascià Enver, Talaat e Djemal. Così, nel recente periodo della storia ottomana, «perfino gli ebrei, sempre agevolati sotto il vecchio regime turco, furono oggetto di persecuzione». Gli armeni, per la loro mite lealtà ai governi, avevano avuto fama, in passato, di popolo fedele (milleti sadyka), ma avendo manifestato un desiderio di riscatto, sono stati spietatamente puniti. Il giudizio di Mandelstam, che ha vissuto a lungo come diplomatico nel paese, condanna severamente, oltre i governi, il popolo turco, per diffusa doppiezza, per scarsezza di apporti recati alla civiltà, per tendenza ad opprimere. Le sue pagine si concludono con una possibile riabilitazione turca, dopo la sconfitta nella guerra mondiale, attraverso il drastico ridimensionamento in uno stato nazionale, che cerchi di essere liberale. Il memorandum di Aaron Aaronsohn fu presentato al ministero della guerra inglese il 16 novembre 1916. Il testo riproduce un dattiloscritto conservato nell’archivio della famiglia Aaronsohn nel Museo dell’organizzazione N.I.L.I. a Zikron Yaakov. Egli dichiara di non essersi trovato nella regione storica di Armenia, ma di avere raccolto le testimonianze di armeni, di tedeschi, della propria sorella Sara e di essere lui stesso testimone di fatti e di racconti in altre zone dell’impero, descrivendo scene raccapriccianti. Disumani trasporti ferroviari in vagoni stipati di deportati, con scarico di morti e moribondi, rimpiazzati da altre caterve; morti e moribondi morsi da cani famelici e derubati di ogni misero resto; migliaia di persone ammassate ed esposte alle intemperie atmosferiche, affamate, assetate, in preda ad epidemie; gruppi di persone frustate mentre accorrevano a bere quando veniva portata dell’acqua, che veniva per scherno rovesciata a terra; mercati di donne e ragazzine armene ridotte in schiavitù e vendute, a pochi soldi; egli stesso ha visto tastare e scegliere la vittima da un maomettano barbuto che si vantava con gli amici dell’acquisto di una ragazzina con le parole «Kutshuk ama etli» (è piccola ma è in carne), con un osceno schiocco della lingua. Essendo gli uomini ammazzati, la maggioranza dei tanti armeni costretti a convertirsi all’islam erano donne. I singoli tedeschi da cui Aaronsohn ha raccolto testimonianze erano inorriditi nel raccontare quanto hanno visto e sentito, e non sarebbe giusto accusare i tedeschi di avervi partecipato, ma la Germania, alleata della Turchia, ha fatto nulla o poco per fermare i massacri. Tra i governanti turchi, chi si è distinto per moderare il furore e attenuare le responsabilità è stato Djemal pascià, che si è vantato di manifestazioni di riconoscenza, ma la sua clemenza era in fondo solo apparente, rendendo meno visibile la persecuzione con l’allontanamento delle vittime o salvandone selettivamente una parte. A Costantinopoli poterono restare solo i residenti, mentre con retate notturne furono selvaggiamente allontanati o uccisi quanti non avevano il permesso. Il calcolo degli uccisi era, per quanto Aaronsohn sapesse, di almeno 650.000. Molte altre le vite furono moralmente distrutte, ridotte alla miseria e alla prostituzione. «L’effetto di massacri sul popolo armeno è stato devastante … Il popolo armeno, una delle componenti più parche e più industriose dell’impero turco, se non addirittura la più parca e industriosa, e, badate bene, è un ebreo a dare questa patente, è ora un popolo di mendicanti affamati e calpestati». Sara Aaronsohn, coraggiosa agente della N.I.L.I., arrestata e torturata dalla polizia turca, dopo avere messo in salvo altri della rete, si suicidò in prigionia. Alex Aaronson, fratello di Sara e di Aaron, espresse da New York l’affinità di dolore e di lotta tra i due popoli: «Armeni, fratelli miei, è un ebreo che vi sta parlando. Il figlio di una razza perseguitata, oltraggiata, maltrattata, come lo è la vostra» (nella prefazione di Antonia Arslan). Di Raphael Lemkin abbiamo, nel libro della Giuntina pagine estratte dal Dossier on the Armenian Genocide, pubblicato nel 2008 dal Center for Armenian Remembrance, con sede a Glendale.Lemkin risale al lungo passato del popolo armeno e della sua Chiesa cristiana, oggetto di persecuzioni e di conversioni forzate, da parte dei zoroastriani, poi dei musulmani. Limitandoci all’Ottocento, l’esploratore A. H. Layard descrisse il massacro del 1843, perpetrato da Bedr Khan Bey, di diecimila nestoriani e cristiani armeni sulle montagne a sud dell’Armenia e del Kurdistan, malgrado la resa e l’impegno a rispettarli. I turchi lasciarono mano libera ai curdi per la carneficina. Gli uomini furono trucidati, le donne e i bambini fatti schiavi. Durante la guerra russo – turca, nel massacro a Bayazid, del 1877, descritto dal corrispondente del Times, furono trucidati anche le donne e i bambini.La Turchia fu vinta e l’articolo 16 del trattato di Pace, firmato a Santo Stefano, nel marzo 1878, la impegnò a garantire la sicurezza degli armeni. I russi avrebbero dovuto sorvegliare il rispetto della clausola, rioccupando i territori che avevano restituito alla Turchia, ma l’Inghilterra, in giugno, si schierò a fianco di questa, garantendola dalla minaccia di rioccupazione russa. La Sublime Porta non mancò di dare assicurazioni all’Inghilterra per il rispetto delle minoranze e di lì a poco il congresso delle potenze tenuto a Berlino, accogliendo le raccomandazioni di una delegazione armena, incluse nel trattato l’obbligo per la Turchia di proteggere gli armeni dalle ricorrenti aggressioni di curdi e di circassi. Ma dopo soli due anni, nel 1880, tredici villaggi armeni vennero distrutti dai curdi. Discutendosi se le potenze europee dovessero dar segno di severa vigilanza, il cancelliere Bismarck disse riservatamente che la questione armena era una grave seccatura.Le aggressioni si succedevano, nel 1893 furono attaccati, anche nelle loro chiese, gli armeni presso Cesarea e n altri luoghi, per giunta accusandoli di aver provocato i disordini. Nel settembre 1894 ci fu il massacro di armeni a Sassoun, seguito da voci che essi stessero preparando una rivolta, quando era loro proibito detenere armi. Nel 1909 avvenne, con molte più vittime, il massacro di Adana. Gli armeni, al pari di altre minoranze, sperarono nell’avvento dei Giovani Turchi e dapprima, con loro, ottennero un migliore status, anche come militari e deputati, ma anch’essi delusero, sicché nel 1913 si rivolsero nuovamente alle potenze europee. Furono nominati, per un’ispezione, un funzionario olandese ed uno svedese, ma quando giunsero scoppiò la guerra mondiale, che fornì alla Turchia l’occasione per disfarsi della presenza armena, attraverso un reclutamento che sottopose i maschi abili a rigorosa soggezione militare senza portare armi e quindi la deportazione in marce forzate della restante popolazione civile in condizioni di graduale annientamento per fame, sete, epidemie, rapine, uccisioni, stupri e schiavizzazione. Il dossier di Lemkin riporta il proclama che diede inizio alla sistematica persecuzione, documenta gli orrori e valuta il numero degli assassinati tra i 600.000 e gli 800.000, cui si sono aggiunti i feriti, gli innumerevoli stupri e gli schiavizzati. Pochissimi armeni si dettero alla macchia sulle colline e riuscirono a salvarsi. Di questi ultimi, i resistenti, narra il celebre romanzo I quaranta giorni del Mussa Dagh di un altro ebreo, lo scrittore Franz Werfel, destinato a doversi mettere avventurosamente in salvo dal il secondo genocidio del secolo, che ha quasi decuplicato il numero dei morti. L’idea del libro venne a Werfel dalla conoscenza e testimonianza in Damasco di miseri superstiti armeni. Lo abbozzò già dal ’29. Lo compose tra il 1932 e il 1933, terminandolo quando Hitler era giunto al potere. E’ un libro di novecento pagine, ambientato principalmente, dopo gli inizi della persecuzione, nelle vie impervie della montagna, dove circa cinquemila armeni si asserragliarono in difesa dalla strage, resistendo, a costo di perdite, finché una nave francese, di passaggio nel golfo di Antiochia, trasse in salvo i superstiti. Un importante intermezzo del romanzo rappresenta l’animoso tentativo del filantropo e missionario tedesco Johannes Lepsius, che accorse in arduo colloquio con Enver Pascià, per cercar di salvare il popolo armeno, mettendolo davanti alle sue responsabilità. Quando Lepsius gli dice di aver avuto il quadro della situazione dall’ambasciatore americano Morgenthau, Enver di rimando glielo scarta come inattendibile: «Mister Morgenthau è ebreo e gli ebrei sono sempre fanatici sostenitori della minoranza». Lepsius richiama Enver alle belle prime intenzioni dei suoi giovani turchi: «Il suo partito, Eccellenza, ha conquistato il potere perché voleva sostituire l’epoca sanguinosa del vecchio sultano con l’unione, col progresso. Così dice il nome del Suo comitato». Enver allora gli spiega la ragione ed il piano dei provvedimenti presi, tacendo il corollario mortale, che Lepsius sa comprendere: «Le farò, a mia volta, una domanda, signor Lepsius. La Germania non ha per fortuna nemici interni o pochissimi. Ma posto il caso che in altre circostanze avesse dei nemici interni, supponiamo franco – alsaziani, polacchi, socialdemocratici, ebrei, in numero maggiore di quel che sia oggi il caso, non approverebbe allora, signor Lepsius, qualsiasi mezzo per liberare dal nemico interno la sua nazione, impegnata in una grave lotta assediata da un mondo di nemici esterni? Giudicherebbe ancora così crudele che di tutti gli elementi della popolazione pericolosi per l’esito della guerra si facesse semplicemente un fardello e lo si mandasse in regioni deserte e remote?» Viene in mente l’archetipo biblico del Faraone che non aveva conosciuto Giuseppe: «Orsù, siamo saggi verso questo popolo, perché moltiplicandosi potrebbe avvenire che si unisse ai nostri nemici …» (Esodo, 1, 10). Il giusto Lepsius non accetta questa logica di ragion di stato mista alla suggestione dell’assedio e del complotto: «Se il governo del mio popolo procedesse contro i suoi conterranei di atra razza o di altra opinione in modo ingiusto, illegale, inumano (anticristiano gli è venuto sulla punta della lingua), io mi staccherei all’istante dalla Germania e me ne andrei in America!» Werfel aveva come fonte la relazione di Lepsius e congedò il libro alla stampa nella primavera del 1933. Era nato a Praga e pensava a quel che si profilava in Europa. Arriverà lui un giorno in America, dopo un travaglioso viaggio per l’Europa occupata dai nazisti e un riparo a Lourdes, dove fece il voto, laico o interreligioso, di comporre un canto a Bernadette. Lo compose e lo pubblicò nel 1941. Morì, a soli ed intensi cinquantacinque anni, nel 1945, l’anno di una grande vittoria sul male. L’anno dopo morì novantenne Henry Morgenthau, l’ambasciatore americano in Turchia dal 1913 al 1916, che si prodigò per armeni, greci, ebrei, anche come dirigente della Croce rossa americana. Presiedette la Free Synagogue di New York. Era nato a Mannheim in Germania. Compose i libri Ambassador Morgennthaus’s Story (1918), l’autobiografia all in a Lifetime (1922), I was sent to Athens (1930). Il figlio portò il suo stesso, Henry, ed è anch’egli famoso come esperto agricolo, consigliere politico, attivo nelle grandi organizzazioni ebraiche di America; nato nel 1891, morì nel 1967. Tra gli strumenti di indispensabile consultazione è l’ottima Encyclopaedia Judaica. Bruno Di Porto

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