martedì 28 aprile 2015

IL BENE' BERITH INTERNATIONAL SI ATTIVA PER LE VITTIME DEL NEPAL

BENE' BERITH "ISIDORO KAHN" beneberithlivorno@gmail.com Livorno, 28 aprile 2015/) Iyar 5775 Il Benè Berith International, associazione internazionale ebraica della quale facciamo parte,anche per il Nepal si è attivato per aiuti umanitari. Chi volesse contribuire può contattarci o inviare bonifico a : B'nai B'rith Europe IBAN: BE95 7320 0748 9158 Causale : RELIEF FUND NEPAL Questo l'appello: B’nai B’rith International Opens Disaster Relief Fund to Aid Nepal Earthquake Victims B’nai B’rith International has opened its Disaster Relief Fund to aid the victims of the devastating earthquake in Nepal that occurred on April 25. The earthquake struck some 50 miles northwest of Kathmandu with a 7.8 magnitude and multiple violent aftershocks. The death toll has climbed to 3,500 and is predicted to grow even higher. B’nai B’rith will also work with other agencies and coalitions to support the emergency, recovery and long-term rebuilding efforts that will be needed as the situation unfolds. Some of the funds raised will help support on-the-scene responders from IsraAID, which already has a team on the ground in Nepal. IsraAID, of which B’nai B’rith is a founding member, is a non-profit humanitarian organization committed to providing life-saving disaster relief and long-term support to people in need, regardless of gender, race, religion or national borders. Recently the B’nai B’rith Disaster Relief Fund supported victims and families of the terror attack in Kenya, as well as the Ebola outbreak in West Africa. B’nai B’rith regularly assists with other projects in the wake of manmade and natural disasters, both domestic and international, and we have done so since 1865. This disaster has devasted the country and people of Nepal. They need the help of the world to recover and we cannot turn away. This emergency and humanitarian aid is one of the greatest examples of the gift that Israel and organizations such as IsraAID bring to the world community. But this gift is only possible because of funding by our supporters of the Disaster Relief Fund. Please help us provide this help by supporting this campaign today. You can also call 800-573-9057 to make a credit card contribution. Or, you can send a check payable to the B’nai B’rith Disaster Relief Fund to: B’nai B’rith International Nepal Relief Fund 1120 20th Street NW, Suite 300N Washington, DC 20036 About B'nai B'rith International B'nai B'rith International, the Global Voice of the Jewish Community, is the most widely known Jewish humanitarian, human rights, and advocacy organization. B'nai B'rith works for Jewish unity, security, and continuity and fights anti-Semitism and intolerance around the world. B'nai B'rith...since 1843. GRAZIE BENE' BERITH "ISIDORO KAHN"

lunedì 27 aprile 2015

PRESENTATO A LIVORNO IL VOLUME "PRO ARMENIA. Voci ebraiche sul genocidio armeno"

Sala piena , ieri, a Villa Mimbelli (g.c, dal Comune di Livorno) per la presentazione del volume "Pro Armenia. Voci ebraiche sul genocidio armeno".

Relatore apprezzatissimo, con richiesta di tornare quanto prima a Livorno, uno dei due curatori del libro,il Prof. Francesco Berti dell'Università di Padova.

Presente anche l'editore Daniel Vogelmann,a suo volta intervenuto,"moderava" per il Benè Berith Gadi Polacco.

Un grazie al prof. Bruno Di Porto che,impossibilitato a partecipare per altro impegno già assunto, ha inviato una preziosa relazione inserita nel nostro sito internet.

Numerosi gli interventi provenienti dal pubblico, a riprova dell'interesse che questa tragica pagina storica, per troppi versi ancora sconosciuta e occultata, riveste.

Un contributo a quello che si aggunge alla serata interreligiosa sul tema voltasi ,sempre a Livorno, giovedi scorso.

(Foto gentilmente concesse da Monica Leonetti Cuzzocrea)

giovedì 23 aprile 2015

"PRO ARMENIA" (Livorno,26 aprile 2015) UN CONTRIBUTO DEL PROF. BRUNO DI PORTO

In occasione della presentazione del volume "Pro Armenia", il 26 aprile 2015 alle ore 16.30 (Sala degli Specchi,g.c.,Villa Mimbelli Livorno), anticipiamo il prezioso contributo che il Prof. Bruno Di Porto ha voluto gentilmente donarci e per il quale lo ringraziamo. Benè Berith "Isidoro Kahn" ************************************************************ DAL METZ YEGHERN, IL GRANDE MALE, ALLA SHOAH Ebrei ed armeni si sono conosciuti fin dall’antichità con reciproche menzioni, o tracce di reciproca individuazione, nelle rispettive culture. Già Ashkenaz, figlio di Gomer, in Genesi (10, 3), nome poi esteso ad una vasta area geografica dell’Europa orientale, è considerato il capostipite di genti armene od affini, per conferma del termine con cui gli stessi armeni si sono, almeno in un certo tempo, chiamati. Anche Uz, il paese di Giobbe, è individuato da commentatori in Armenia, una regione montuosa dell’Asia Minore. Sul monte Ararat, nel racconto biblico, si posò l’arca di Noè (Genesi, 8, 4), che corrisponde per altimetria e per nome al più antico regno armeno di Urartu. All’apogeo della loro monarchia, nel I secolo avanti Cristo, forze armene si spinsero, con il re Tigrane, attraverso la Siria, fino alla terra di Israele, ed avrebbero portato prigionieri ebrei, secondo lo storico Mosè di Corene, nel loro paese, dove in effetti giunsero, ben da prima, numerosi immigranti ebrei, nel gran quadro della diaspora ebraica, con reciproche influenze e probabili commistioni. Lo stesso storico, sopra citato, attribuisce origine ebraica ad una dinastia feudale armena e ad altri gruppi. L’Armenia, in uno spazio compreso tra Anatolia, Persia e Transcaucasia, passò alternandosi vicende di indipendenza e dominazioni straniere, per l’espansione di maggiori potenze e invasioni di altre popolazioni. Riuscì a mantenere l’autonomia ben più a lungo degli ebrei, fino alla spartizione tra la Persia e l’impero romano. Cadde, poi, sotto il dominio arabo e l’ottomano, cui ne disputò e sottrasse una porzione prima, nuovamente, la Persia, poi la Russia. Parte degli armeni si spostò frattanto verso ovest e ricuperò l’indipendenza in Cilicia con un regno di Piccola Armenia, che conobbe un periodo splendido, finendo però nel 1375 sotto i turchi selgiuchidi e quindi nell’Impero ottomano. Politicamente sottomessi, gli armeni mantennero loro basi etniche sul territorio e nel contempo si sparsero, come già da prima, in una vasta diaspora, a somiglianza degli ebrei anche per duttilità ed intraprendenza commerciale. Serbarono la propria lingua e cultura, fecondata da una intensa assimilazione del Cristianesimo con propria Chiesa, di origine apostolica (in particolare vanta l’origine da Giuda Taddeo, seguace e familiare di Gesù) e di caratterizzazione miafisita (relativamente simile ma distinta dal monofisismo), per affermazione di una sola natura nel Cristo. Importante presenza armena è in Israele con il patriarcato e proprio quartiere in Gerusalemme. Un minore chiesa armena è cattolica, facendo capo a Roma. Importante è stata e tuttora è la presenza armena in Italia, specie a Venezia, a Ravenna, a Roma,in Sicilia, a Livorno, dove gli armeni furono invitati a risiedere dai Medici, contemporaneamente agli ebrei. Reliquie di Gregorio Illuminatore, cui si deve la conversione del regno armeno, sono venerate in più città italiane. Tra memorie religiose, pregi culturali, attivismo commerciale, degli armeni e intorno agli armeni in Italia, si segnala per allegro esotismo, una caricaturale imitazione del mercante e del linguaggio armeni nella commedia di Goldoni La famiglia dell’antiquario, dove Arlecchino si improvvisa appunto armeno con finali di parola in ara era ira, per imbrogliare l’ingenuo conte. Nell’impero ottomano, che accolse gli ebrei esuli dalla Spagna, convivevano meglio che in Europa nazionalità e religioni, ma la situazione si aggravò per gli armeni sul finire dell’Ottocento e agli inizi del Novecento, per la stretta del governo verso le autonomie, nella crisi di decadenza e di progressivo sfaldamento, con la perdita ad ovest in Africa del Maghreb, per conquista francese, poi dell’Egitto per occupazione inglese, e di gran parte del dominio nei Balcani, a seguito della guerra con la Russia, conclusa dalla pace di Santo Stefano (1878). Contraccolpo interno fu la reazione autoritaria e di segno panislamico sotto il sultano Abdu al- Hamid, che, tra varie repressioni, ebbe il culmine tragico nei massacri degli armeni durante gli anni 1895 – 1897, per stroncare ogni loro fermento. La situazione peggiorava anche in Russia, dopo l’assassinio dello zar Alessandro II (1881), seguito dai pogrom contro gli ebrei e dal libero sfogo lasciato alle violenze dei tartari contro gli armeni, simili a quelle dei curdi in Anatolia contro gli stessi armeni. L’opposizione progressista all’assolutismo di Abd ul - Hamid prese forma nel movimento dei Giovani Turchi, in cui militarono taluni ebrei e forse più armeni, ed il sultano venne deposto nel 1908, ma non ne seguì un sollevo nella condizione degli armeni e neppure un progresso nella politica ottomana verso il sionismo per la Palestina. L’impero ottomano subì un altro scacco, nel 1911 – 12, per la guerra mossa dall’Italia, che occupò la Libia, e seguì di filato, per ripercussione, la sfida della Lega balcanica, che portò all’estromissione ottomana da quasi tutti i possessi in Europa. Il vecchio impero ottomano permaneva vasto nell’Asia anteriore, salvo le influenze tedesca, francese ed inglese, che se da un lato vi portarono elementi di progresso (specie le ferrovie) per altro verso lo minavano con le loro ambizioni, mirando a modificarlo e a spartirlo. La Sublime Porta, come il governo imperiale turco soleva chiamarsi, venne ad intendersi meglio con la Germania, e il 2 agosto 1914, all’inizio della Grande guerra, ci si alleò formalmente. La Turchia restava per il momento neutrale, ma con misure favorevoli alla Germania, e le potenze dell’Intesa il 5 novembre le dichiaravano guerra, anche per assicurarsi il passaggio navale degli stretti. Il conflitto, di enormi proporzioni e lunga durata, provocò, oltre le perdite militari, repressioni e rappresaglie ai civili nei territori occupati. Impressionante fu il caso del Belgio, invaso dai tedeschi e sottoposto a crudele trattamento. In ogni paese belligerante incombeva il sospetto verso connivenze interne con i nemici, ed il clima bellico di inesorabile ostilità accentuò il livore verso minoranze invise. Così, nel corso della guerra, su fronti opposti, ripresero gli orrori di fine Ottocento verso gli ebrei nell’Europa orientale, accusati di stare dalla parte dei tedeschi, e verso gli armeni, accusati di stare coi nemici della Turchia. Per gli ebrei, citiamo dall’opera di Martin Gilbert, La grande storia della prima guerra mondiale: «A mano a mano che i tedeschi avanzavano nelle province polacche dell’impero arista, la popolazione locale infieriva contro gli ebrei, che pure vivevano in quelle terre da secoli. Botteghe, case e sinagoghe vennero saccheggiate. Nella zona occupata dalle divisioni russe, a quanto riferì l’ambasciatore francese a Mosca, Paleòlogue, ogni giorno venivano impiccati ebrei,accusati di parteggiare per i tedeschi, di cui si sarebbero augurati la vittoria. Che 250.000 ebrei prestassero servizio nell’esercito russo non bastava a vincere i pregiudizi. Centinaia di migliaia di ebrei furono costretti ad abbandonare le proprie case a Lodz, Piotrokov, Bialystok, Grodno, e in altre decine di città e villaggi. Si misero in cammino, portando on sé quel poco che un carretto e un fagotto potevano contenere, e si diressero verso est, rifugiandosi nella profonda Russia, lontano dal fanatismo delle zone dove infuriava la guerra». Altri ebrei, invero, salutarono come liberatori, al confronto, i tedeschi e gli austriaci, nelle cui file combattevano loro correligionari, e ciò non bastava peraltro a diminuire l’antisemitismo, abbondante in Germania e in Austria. Un episodio di discriminazione, denunciato da deputati ebrei al Reichstag fu il censimento delle appartenenze confessionali tra i giovani occupati nelle industrie di armamenti per stabilire quanti fossero gli ebrei assegnati a quel lavoro piuttosto che al fronte. Le autorità ottomane, tradizionalmente tolleranti verso i sudditi ebrei nel complesso dell’impero, misero però al bando il sionismo, con gravi conseguenze sul nuovo ishuv (popolamento) in Palestina, espulsione dei pionieri cittadini degli stati dell’ Intesa, arresti e trasferimenti di altri ebrei, sebbene l’alleata Germania mantenesse un rapporto con la componente tedesca del movimento sionista, che cercava logicamente l’appoggio del proprio paese per giovare alla causa, come aveva fatto da prima della guerra. Prevalse, tuttavia, per il futuro del sionismo il rapporto con l’Intesa, tra l’altro con la formazione di un corpo militare ebraico, e con il fondamentale documento della Dichiarazione Balfour. La persecuzione sistematica, spinta all’annientamento di massa, toccò nell’Impero ottomano, dal 1915, in ripresa di quanto era avvenuto vent’anni prima, al popolo armeno, tale da configurarsi nei termini del genocidio, definizione coniata dal giurista ebreo Raphael Lemkin (1901 – 1959), nato in Polonia, dedito fin da giovane allo studio ed alla sensibilizzazione in materia, da prima della Shoah, in cui perse gran parte della sua stessa famiglia, con il rapporto del 1944 Axis Rule in occupied Europe, e quindi nel dopoguerra, impegnandosi per la convenzione internazionale, approvata nel 1951, sulla prevenzione e la repressione del delitto di genocidio. Il peggio venne,come dicevo, durante la prima guerra mondiale, dopo l’avvento al potere del comitato Unione e Progresso, vertice del movimento dei Giovani Turchi, che nel liberale inizio, aveva acceso le migliori speranze, con partecipazione di armeni e di ebrei (notevole il ruolo di Emanuele Carasso), e in collegamento massonico con ambienti italiani: si veda Luca G. Manenti, Massoneria italiana, Ebraismo e movimento dei Giovani Turchi, in «La Rassegna Mensile di Israel», LXXVIII, n. 3, settembre – dicembre 2012. La stretta autoritaria, di sospetto e terrore, avvenne in reazione alla fine del dominio ottomano in Europa e in Africa, e nel quadro delle crescenti tendenze nazionaliste nella competizione internazionale, manifestate nell’ambito delle stesse massonerie; per il nostro più vicino scenario, dalla guerra italo - turca per la Libia alla guerra mondiale. Con un estratto del suo Dossier sul genocidio armeno, Lemkin è uno degli autori che compaiono nel libro Pro Armenia. Voci ebraiche sul genocidio armeno, pubblicato dalla Giuntina nel centenario dell’inizio di quel misfatto ed in vista del convegno che si terrà in Roma dal 25 al 28 maggio prossimi. Il volume è curato da Fulvio Cortese e Francesco Berti, con la prefazione di Vittoria Arslan. Gli altri autori, di generazione precedente e perciò intervenuti durante o poco dopo i massacri degli armeni, sono Lewis Einstein (1877 – 1967), diplomatico e studioso statunitense, André Mandelstam (1869 – 1949), giurista e a suo tempo ambasciatore russo a Costantinopoli, e Aaron Aaronsohn (1876 – 1919), pioniere sionista, agronomo cui si rivolse il governo ottomano per combattere l’invasione di locuste, attivo nella organizzazione segreta N.I.L.I. (acronimo di Nezach Israel Lo Ishaker, Gloria di Israel non deluderà, Samuele I, 15, 29) in contatto con gli inglesi per la liberazione di Erez Israel dal dominio turco. Il testo di Lewis Einstein comparve nel gennaio 1917, col titolo The Armenian Massacres, in “The Contemporary Review”. Parte da una precedente consuetudine di tollerante convivenza tra turchi ed armeni, sconvolta al tempo di Abd ul Hamid, dalla guerra con la Russia, fino al furore dei Giovani turchi, che addussero la vendetta per la mobilitazione degli armeni russi nella nuova guerra contro la Turchia, con adesione di volontari armeni turchi, accorsi, a loro volta, per vendicavare i patimenti subiti. Einstein chiarisce la responsabilità della Germania, che fermò l’iniziato massacro dei greci, per interesse alle relazioni con quel paese, e lasciò invece commettere quello degli isolati armeni. Accusa la determinazione personale di Mehmed Talaat Bey nella gestione dall’ alto degli eccidi, istigando, oltre i curdi, la peggiore feccia di comuni criminali, e rende invece il merito di funzionari turchi, che a costo di essere rimossi, si astennero dall’eseguire gli ordini. Descrive le modalità dell’eliminazione di massa, cominciata, a partire dal 24 aprile 1915, con l’attacco e depredazione dell’élite armena, fino all’esito di circa 600.000 morti, attraverso l’ allontanamento dalle abitazioni, con un minimo di bagaglio, e le marce forzate su lunghe distanze, senza viveri e acqua, tra assalti, annegamenti, uccisioni degli uomini, stupri delle donne, disperazione di genitori che cercavano di affidare i bambini a persone misericordiose lungo la traversata. Il tutto era previsto e coordinato da una struttura operativa, detta Organizzazione speciale, tra i cui capi era l’ideologo della pulizia etnica era Selanikli Mehmet Nazim Bey, un nomen omen. La ribellione delle vittime fu rara, per l’impari rapporto di forze, essendo essendo stati i giovani robusti reclutati nell’esercito, sottoposti a dura disciplina e adibiti, disarmati, ai servizi pesanti. André Mandelstam, nel libro La Turquie, pubblicato nel 1918, delinea il quadro di un impero dispotico, sfruttatore, corrotto, basato su una stirpe turca dominante (milleti hakimé) e utilizzante certe etnie per sopraffarne altre. I Giovani Turchi, che nel 1909 deposero il tiranno Abd ul Hamid, esordirono come nuovo elemento di progresso, intenzionato a compiere le riforme, cui il governo ottomano si era impegnato con le potenze europee, specialmente per la tutela delle oppresse minoranze; ma, giunti al potere, rapidamente rivelarono la continuità e finanche il peggioramento rispetto al governo precedente, riprendendone l’ideologia panislamica. Destituiti per breve tempo, nel 1912, da una inadeguata opposizione liberale, tornarono al potere nel 1913 col sostegno dell’esercito e la direzione di un crudele triumvirato, formato dai pascià Enver, Talaat e Djemal. Così, nel recente periodo della storia ottomana, «perfino gli ebrei, sempre agevolati sotto il vecchio regime turco, furono oggetto di persecuzione». Gli armeni, per la loro mite lealtà ai governi, avevano avuto fama, in passato, di popolo fedele (milleti sadyka), ma avendo manifestato un desiderio di riscatto, sono stati spietatamente puniti. Il giudizio di Mandelstam, che ha vissuto a lungo come diplomatico nel paese, condanna severamente, oltre i governi, il popolo turco, per diffusa doppiezza, per scarsezza di apporti recati alla civiltà, per tendenza ad opprimere. Le sue pagine si concludono con una possibile riabilitazione turca, dopo la sconfitta nella guerra mondiale, attraverso il drastico ridimensionamento in uno stato nazionale, che cerchi di essere liberale. Il memorandum di Aaron Aaronsohn fu presentato al ministero della guerra inglese il 16 novembre 1916. Il testo riproduce un dattiloscritto conservato nell’archivio della famiglia Aaronsohn nel Museo dell’organizzazione N.I.L.I. a Zikron Yaakov. Egli dichiara di non essersi trovato nella regione storica di Armenia, ma di avere raccolto le testimonianze di armeni, di tedeschi, della propria sorella Sara e di essere lui stesso testimone di fatti e di racconti in altre zone dell’impero, descrivendo scene raccapriccianti. Disumani trasporti ferroviari in vagoni stipati di deportati, con scarico di morti e moribondi, rimpiazzati da altre caterve; morti e moribondi morsi da cani famelici e derubati di ogni misero resto; migliaia di persone ammassate ed esposte alle intemperie atmosferiche, affamate, assetate, in preda ad epidemie; gruppi di persone frustate mentre accorrevano a bere quando veniva portata dell’acqua, che veniva per scherno rovesciata a terra; mercati di donne e ragazzine armene ridotte in schiavitù e vendute, a pochi soldi; egli stesso ha visto tastare e scegliere la vittima da un maomettano barbuto che si vantava con gli amici dell’acquisto di una ragazzina con le parole «Kutshuk ama etli» (è piccola ma è in carne), con un osceno schiocco della lingua. Essendo gli uomini ammazzati, la maggioranza dei tanti armeni costretti a convertirsi all’islam erano donne. I singoli tedeschi da cui Aaronsohn ha raccolto testimonianze erano inorriditi nel raccontare quanto hanno visto e sentito, e non sarebbe giusto accusare i tedeschi di avervi partecipato, ma la Germania, alleata della Turchia, ha fatto nulla o poco per fermare i massacri. Tra i governanti turchi, chi si è distinto per moderare il furore e attenuare le responsabilità è stato Djemal pascià, che si è vantato di manifestazioni di riconoscenza, ma la sua clemenza era in fondo solo apparente, rendendo meno visibile la persecuzione con l’allontanamento delle vittime o salvandone selettivamente una parte. A Costantinopoli poterono restare solo i residenti, mentre con retate notturne furono selvaggiamente allontanati o uccisi quanti non avevano il permesso. Il calcolo degli uccisi era, per quanto Aaronsohn sapesse, di almeno 650.000. Molte altre le vite furono moralmente distrutte, ridotte alla miseria e alla prostituzione. «L’effetto di massacri sul popolo armeno è stato devastante … Il popolo armeno, una delle componenti più parche e più industriose dell’impero turco, se non addirittura la più parca e industriosa, e, badate bene, è un ebreo a dare questa patente, è ora un popolo di mendicanti affamati e calpestati». Sara Aaronsohn, coraggiosa agente della N.I.L.I., arrestata e torturata dalla polizia turca, dopo avere messo in salvo altri della rete, si suicidò in prigionia. Alex Aaronson, fratello di Sara e di Aaron, espresse da New York l’affinità di dolore e di lotta tra i due popoli: «Armeni, fratelli miei, è un ebreo che vi sta parlando. Il figlio di una razza perseguitata, oltraggiata, maltrattata, come lo è la vostra» (nella prefazione di Antonia Arslan). Di Raphael Lemkin abbiamo, nel libro della Giuntina pagine estratte dal Dossier on the Armenian Genocide, pubblicato nel 2008 dal Center for Armenian Remembrance, con sede a Glendale.Lemkin risale al lungo passato del popolo armeno e della sua Chiesa cristiana, oggetto di persecuzioni e di conversioni forzate, da parte dei zoroastriani, poi dei musulmani. Limitandoci all’Ottocento, l’esploratore A. H. Layard descrisse il massacro del 1843, perpetrato da Bedr Khan Bey, di diecimila nestoriani e cristiani armeni sulle montagne a sud dell’Armenia e del Kurdistan, malgrado la resa e l’impegno a rispettarli. I turchi lasciarono mano libera ai curdi per la carneficina. Gli uomini furono trucidati, le donne e i bambini fatti schiavi. Durante la guerra russo – turca, nel massacro a Bayazid, del 1877, descritto dal corrispondente del Times, furono trucidati anche le donne e i bambini.La Turchia fu vinta e l’articolo 16 del trattato di Pace, firmato a Santo Stefano, nel marzo 1878, la impegnò a garantire la sicurezza degli armeni. I russi avrebbero dovuto sorvegliare il rispetto della clausola, rioccupando i territori che avevano restituito alla Turchia, ma l’Inghilterra, in giugno, si schierò a fianco di questa, garantendola dalla minaccia di rioccupazione russa. La Sublime Porta non mancò di dare assicurazioni all’Inghilterra per il rispetto delle minoranze e di lì a poco il congresso delle potenze tenuto a Berlino, accogliendo le raccomandazioni di una delegazione armena, incluse nel trattato l’obbligo per la Turchia di proteggere gli armeni dalle ricorrenti aggressioni di curdi e di circassi. Ma dopo soli due anni, nel 1880, tredici villaggi armeni vennero distrutti dai curdi. Discutendosi se le potenze europee dovessero dar segno di severa vigilanza, il cancelliere Bismarck disse riservatamente che la questione armena era una grave seccatura.Le aggressioni si succedevano, nel 1893 furono attaccati, anche nelle loro chiese, gli armeni presso Cesarea e n altri luoghi, per giunta accusandoli di aver provocato i disordini. Nel settembre 1894 ci fu il massacro di armeni a Sassoun, seguito da voci che essi stessero preparando una rivolta, quando era loro proibito detenere armi. Nel 1909 avvenne, con molte più vittime, il massacro di Adana. Gli armeni, al pari di altre minoranze, sperarono nell’avvento dei Giovani Turchi e dapprima, con loro, ottennero un migliore status, anche come militari e deputati, ma anch’essi delusero, sicché nel 1913 si rivolsero nuovamente alle potenze europee. Furono nominati, per un’ispezione, un funzionario olandese ed uno svedese, ma quando giunsero scoppiò la guerra mondiale, che fornì alla Turchia l’occasione per disfarsi della presenza armena, attraverso un reclutamento che sottopose i maschi abili a rigorosa soggezione militare senza portare armi e quindi la deportazione in marce forzate della restante popolazione civile in condizioni di graduale annientamento per fame, sete, epidemie, rapine, uccisioni, stupri e schiavizzazione. Il dossier di Lemkin riporta il proclama che diede inizio alla sistematica persecuzione, documenta gli orrori e valuta il numero degli assassinati tra i 600.000 e gli 800.000, cui si sono aggiunti i feriti, gli innumerevoli stupri e gli schiavizzati. Pochissimi armeni si dettero alla macchia sulle colline e riuscirono a salvarsi. Di questi ultimi, i resistenti, narra il celebre romanzo I quaranta giorni del Mussa Dagh di un altro ebreo, lo scrittore Franz Werfel, destinato a doversi mettere avventurosamente in salvo dal il secondo genocidio del secolo, che ha quasi decuplicato il numero dei morti. L’idea del libro venne a Werfel dalla conoscenza e testimonianza in Damasco di miseri superstiti armeni. Lo abbozzò già dal ’29. Lo compose tra il 1932 e il 1933, terminandolo quando Hitler era giunto al potere. E’ un libro di novecento pagine, ambientato principalmente, dopo gli inizi della persecuzione, nelle vie impervie della montagna, dove circa cinquemila armeni si asserragliarono in difesa dalla strage, resistendo, a costo di perdite, finché una nave francese, di passaggio nel golfo di Antiochia, trasse in salvo i superstiti. Un importante intermezzo del romanzo rappresenta l’animoso tentativo del filantropo e missionario tedesco Johannes Lepsius, che accorse in arduo colloquio con Enver Pascià, per cercar di salvare il popolo armeno, mettendolo davanti alle sue responsabilità. Quando Lepsius gli dice di aver avuto il quadro della situazione dall’ambasciatore americano Morgenthau, Enver di rimando glielo scarta come inattendibile: «Mister Morgenthau è ebreo e gli ebrei sono sempre fanatici sostenitori della minoranza». Lepsius richiama Enver alle belle prime intenzioni dei suoi giovani turchi: «Il suo partito, Eccellenza, ha conquistato il potere perché voleva sostituire l’epoca sanguinosa del vecchio sultano con l’unione, col progresso. Così dice il nome del Suo comitato». Enver allora gli spiega la ragione ed il piano dei provvedimenti presi, tacendo il corollario mortale, che Lepsius sa comprendere: «Le farò, a mia volta, una domanda, signor Lepsius. La Germania non ha per fortuna nemici interni o pochissimi. Ma posto il caso che in altre circostanze avesse dei nemici interni, supponiamo franco – alsaziani, polacchi, socialdemocratici, ebrei, in numero maggiore di quel che sia oggi il caso, non approverebbe allora, signor Lepsius, qualsiasi mezzo per liberare dal nemico interno la sua nazione, impegnata in una grave lotta assediata da un mondo di nemici esterni? Giudicherebbe ancora così crudele che di tutti gli elementi della popolazione pericolosi per l’esito della guerra si facesse semplicemente un fardello e lo si mandasse in regioni deserte e remote?» Viene in mente l’archetipo biblico del Faraone che non aveva conosciuto Giuseppe: «Orsù, siamo saggi verso questo popolo, perché moltiplicandosi potrebbe avvenire che si unisse ai nostri nemici …» (Esodo, 1, 10). Il giusto Lepsius non accetta questa logica di ragion di stato mista alla suggestione dell’assedio e del complotto: «Se il governo del mio popolo procedesse contro i suoi conterranei di atra razza o di altra opinione in modo ingiusto, illegale, inumano (anticristiano gli è venuto sulla punta della lingua), io mi staccherei all’istante dalla Germania e me ne andrei in America!» Werfel aveva come fonte la relazione di Lepsius e congedò il libro alla stampa nella primavera del 1933. Era nato a Praga e pensava a quel che si profilava in Europa. Arriverà lui un giorno in America, dopo un travaglioso viaggio per l’Europa occupata dai nazisti e un riparo a Lourdes, dove fece il voto, laico o interreligioso, di comporre un canto a Bernadette. Lo compose e lo pubblicò nel 1941. Morì, a soli ed intensi cinquantacinque anni, nel 1945, l’anno di una grande vittoria sul male. L’anno dopo morì novantenne Henry Morgenthau, l’ambasciatore americano in Turchia dal 1913 al 1916, che si prodigò per armeni, greci, ebrei, anche come dirigente della Croce rossa americana. Presiedette la Free Synagogue di New York. Era nato a Mannheim in Germania. Compose i libri Ambassador Morgennthaus’s Story (1918), l’autobiografia all in a Lifetime (1922), I was sent to Athens (1930). Il figlio portò il suo stesso, Henry, ed è anch’egli famoso come esperto agricolo, consigliere politico, attivo nelle grandi organizzazioni ebraiche di America; nato nel 1891, morì nel 1967. Tra gli strumenti di indispensabile consultazione è l’ottima Encyclopaedia Judaica. Bruno Di Porto

domenica 19 aprile 2015

La scomparsa di Rav Elio Toaff : il nostro sincero cordoglio.

La notizia della scomparsa del Rabbino Prof. Elio Toaff ci addolora e ci rattrista.
Coraggio,saggezza , forza morale sono stati tra gli elementi che ne hanno fatto un personaggio unico e carismatico.
Il suo ricordo sia per benedizione.

Bene' Berith "Isidoro Kahn"
www.beneberithlivorno.blogspot.com

lunedì 13 aprile 2015

Presentato con successo,a Livorno,il volume di Valentino Baldacci su comunisti e socialisti di fronte alla guerra dei Sei Giorni.

Tutto esaurito, presso la storica LIbreria Belforte di Livorno (gentilmente postasi a disposizione per ospitare l'evento), per la presentazione del volume di Valentino Baldacci dal titolo "1967. Comunisti e socialisti di fronte alla guerra dei Sei Giorni", tenutasi domenica 12 aprile 2015, "moderata" da Gadi Polacco per il Benè Berith.

Il saggio propone e comprova  la tesi, robustamente sostenuita da documentazione e articoli dei giornaoi dell'epoca,secondo la quale  "l'immagine dello Stato d'Israele presente da decenni nella Sinistra italiana (non solo in quella più estrema) - cioè quella di uno Stato aggressivo, espansionista, militarista, violento, razzista, con tratti assimilabili a quelli del nazismo, che pratica la discriminazione e l'apartheid nei confronti degli arabi - sia stata costruita in occasione della guerra dei sei giorni del giugno 1967, ad opera del PCI come risultato di uno scontro politico e mediatico con il Partito Socialista Per trovare la conferma di questa ipotesi è stata analizzata la stampa comunista e socialista, in particolare i rispettivi organi ufficiali "L'Unità" e "Avanti!" - ma anche i periodici e le riviste che facevano capo ai due partiti e anche quelle che, in senso lato, facevano parte dell'area culturale della Sinistra, nonché il principale quotidiano fiancheggiatore del PCI, "Paese Sera". È stato anche tenuto conto delle lettere inviate ai tre quotidiani ed è stato messo in rilievo il ruolo specifico dei dirigenti politici e dei giornalisti dei due partiti".

Con l'autore ne hanno parlato due relatori, il Prof. Maurizio Vernassa (Università di Pisa e storico esponente socialista livornese) e il Dr. Claudio Frontera, saggista, dirigente del PCI-PDS, già assessore comunale e poi Presidente della Provincia di Livorno assai capaci , come ha rilevato il Prof. Baldacci,di approfondire "in maniera esemplare un tema così complesso"  riuscendo  a "coinvolgere il pubblico nella discussione".

Una grande soddisfazione,quindi,per gli organizzatori, le associazioni "Benè Berith" e i Circoli "G.E.Modigliani" e "L.Einaudi".

Foto: alcuni momenti dell'iniziativa e uno scorcio parziale del pubblico.

lunedì 6 aprile 2015

GLI AUGURI AL RABBINO LARAS DALLA "SUA LIVORNO"

Compie oggi ottanta anni il Rabbino Prof. Giuseppe Laras , figura centrale per il mondo ebraico in questi decenni come ampiamente approfondito nell'articolo di Vittorio Robiati Bendaud che segue,tratto dal sito della Comunità Ebraica di Milano alla guida della quale il Rabbino Laras approdò, iniziata la propria carriera ad Ancona, provenendo proprio da Livorno. Nella nostra città il segno lasciato da Rav Laras è indelebile e in ogni occasione nella quale ha potuto da noi è tornato, mantenendp quindi sempre un forte legame ricambiato con stima e grande affetto. Risale al 1968 l'assunzione della cattedra rabbinica livornese da parte sua, essendo mancato l'anno prima Rav Bruno G.Polacco (z.l.), quella cattedra che prima era stata di Samuele Colombo (z.l.) e poi di Alfredo S.Toaff (z.l.) : alla sua partenza per Milano,nel 1980, l'incarico labronico verrà assunto da Rav Isidoro Kahn (z.l.). Rabbino Capo a Milano sino al 2005, nel 2011 riassume la carica presso la Comunità di Ancona , dopo essere stato anche, per sette anni,direttore del Collegio Rabbinico Italiano, per molti anni Presidente dell'Assemble Rabbinica Italiana e di Tribunali Rabbinici (attualmente quello del Centro Nord Italia). Figura di enorme e invidiabile spessore culturale , non solo in ambito ebraico come ben descritto nell'articolo citato,è autore di numerosi saggi. Anche nel campo del dialogo interreligioso il periodo livornese appare fondamentale nella biografia di Rav Laras, grazie all'intensa collaborazione e amicizia con il Vescovo Alberto Ablondi, amico indimenticabile del mondo ebraico,con il quale manterrà sempre continui e profondi contatti. Ecco perchè, già da questi sommari accenni, è possibile rivolgere i più sinceri auguri a Rav Laras dalla "sua Livorno" che lo attende, speriamo di poter presto indicare la data, per festeggiarlo e presentare l'ultima sua pubblicazione, invitato dal Benè Berith "Isidoro Kahn" che, significativamente e anche per l'amicizia con lo scomparso Presidente Piero Shemuel Cassuto (zl),egli volle inaugurare nel 2009 con un proprio intervento. Ad me'ah ve'esrim shanah – עד מאה ועשרים שנה,sino a centoventi anni, secondo la tradizionale formula augurale ebraica. Gadi Polacco Foto : 2009, l'intervento del Rabbino Laras per l'inaugurazione del Benè Berith. Accanto a lui Piero Shemuel Cassuto e Mons. Alberto Ablondi (sia il loro ricordo per benedizione) L'ARTICOLO TRATTO DAL SITO DELLA COMUNITA' EBRAICA DI MILANO
Qol Yosef, la voce di Laras Di: Vittorio Robiati Bendaud 06/04/2015 Milano CIMG5503Un uomo che ha segnato quarant’anni dell’ebraismo italiano e che ha ordinato numerosi rabbini; il grande propulsore del dialogo ebraico-cristiano; l’intellettuale ebreo, studioso del pensiero ebraico, noto a laici e religiosi, anche fuori dai confini italiani ed europei. Ecco che significa festeggiare gli ottant’anni di Rav Giuseppe Laras, il 6 aprile 2015. Scrivere di Rav Laras in occasione del suo ottantesimo compleanno non è facile, perché è difficile selezionare che cosa dire, data la mole di informazioni, eventi, studi, prese di posizione che lo riguarda, non solo in lingua italiana o in lingua ebraica. È anche difficile perché l’uomo non è un tipo facile: è timido, riservato, poco incline alle confidenze, talvolta scontroso, burbero e persino intrattabile, certamente esigente; ma, al contempo, è anche ironico e pieno di sense of humour, profondamente buono e dall’intelligenza vivace, ben disposto e comprensivo verso la fragilità e le difficoltà delle persone, naturalmente elegante di un’eleganza demodé e un po’ “stropicciata”. I primi tratti che ho descritto della sua personalità sono quelli che ne hanno fatto un mistero per molti, che non lo compresero, si ché avvertirono e tuttora avvertono una certa “distanza” e freddezza da parte sua. C’è poi il Rav Laras che conosciamo io e altre persone, a cui siamo legati per vincoli di affetto, amicizia, stima e studio, per cui, come è noto, ha-ahavah meqalqeleth et ha-shurah (l’affetto altera il giudizio). Sono tre i grandi cammei, certamente veri, ma assai incompleti e decontestualizzati, con cui i più, ebrei e no, si riferiscono al Rav: I. Rav Laras “il Sopravvissuto” a una delle tante atroci storie “private”, dall’esito drammatico, della Shoah, ove perse, vedendole scomparire per sempre dai suoi occhi, sua mamma e sua nonna; lui, fuggitivo solitario di notte, ancora bambino, dalla Torino della guerra, che perse per lo shock la parola per alcuni mesi; II. Rav Laras l’ “uomo del Dialogo”, circa il dialogo ebraico-cristiano in particolare, di cui è tra i precursori, tra gli interpreti più coraggiosi e tra i maggiori araldi e animatori, ma anche in relazione al difficile dialogo interreligioso con l’Islàm, dato che fu lui a inaugurare e tenacemente mantenere i rapporti con la CoReIs prima e con alcune altre associazioni culturali islamiche poi, ivi inclusa la partecipazione agli incontri della Conférence Européenne des Imam et des Rabbins, invitato dall’allora Grande Rabbino di Francia -suo caro amico- Rav R. S. Sirat; III. Rav Laras “il Professore”, docente universitario a Pavia e a Milano, dopo il successo negli studi di giurisprudenza prima (dove ebbe per docenti Norberto Bobbio e Stefano Rodotà) e di filosofia poi (dove studiò con Nicola Abbagnano e Mario Tronti). Per cercare di capire Rav Laras, tuttavia, volenti o nolenti, dobbiamo inquadrare -e restituire- il suo profilo principale, il più delicato, che gli è costato non pochi oppositori, detrattori e nemici, ossia Rav Laras “il rabbino”, il che è inscindibilmente anche correlato alla sua attività di studioso del pensiero ebraico e di animatore italiano del Sionismo. Per sintetizzare, ma con il rischio di banalizzare, sono due i caratteri principali alla base della sua attività rabbinica: un ponte, anche biografico, tra ebraismo italiano e mondo sefardita –specie per quanto concerne la Halakhah e il rapporto Torah-Madda-, ove per mondo “sefardita” non si intende quello orientale e nord-africano, bensì i grandi centri spagnolo-portoghesi di Livorno, Venezia, Ferrara, Ancona, Amsterdam e Londra. E Rav Laras, pur essendo torinese per nascita e formatosi alla scuola di Maestri dell’ebraismo italiano, è anche di origine livornese, dunque di quel particolare mondo sefardita, come spesso lui stesso orgogliosamente rivendica; in secondo luogo, una linea mediana ortodossa tra “interno” e “esterno”, tra studi profani e studi religiosi, che gli ha alienato il (dubbio) privilegio di una claque di sostenitori, trovando resistenze sia tra alcuni laici –specie quelli liberal e radical chic- sia tra alcuni religiosi, in particolar modo se pseudo-tali o poco preparati. Rav Laras ha avuto il privilegio di ascoltare le lezioni di una delle massime autorità ashkenazite del ‘900, il Rav Yechiel Ya‘aqòv Weinberg, autore della fondamentale opera di Halakhah “Seridé Esh”, con cui ebbe più volte occasione di studiare, recandosi spesso anche in Svizzera alla Yeshivah di Montreux (con Weinberg studiarono, tra gli altri, Rav E. Berkovits e il Rebbe di Lubavitch). Rav Weinberg insegnò presso il seminario rabbinico ortodosso berlinese Hildesheimer, succedendo a un altro grande posèq del Novecento, Rav Davìd Hofmann, autore dell’opera di Halakhah Melammed le-Hoìl, su cui il compianto Rav Dario Disegni –tra i principali e più cari Maestri di Rav Laras- faceva allora studiare ed esercitare i giovani talmidìm della Scuola Rabbinica Margulies di Torino, da lui fondata. Va specificato che Rav Hofmann fu allievo diretto del Rav Azriel Hildesheimer, entrambi fautori di una ortodossia ebraica disposta ad affiancare positivamente lo studio approfondito delle discipline profane (scientifiche, giuridiche e filosofiche) allo studio della Torah e delle fonti tradizionali. Riconnettersi idealmente -pur con le mille differenze, talora anche molto pronunciate, che contraddistinguono queste voci del mondo ortodosso ashkenazita- a Maestri quali Hofmann, Hildesheimer e Wienberg, significa, come è stato per Rav Laras, frequentare e conoscere per tangenza le opere di altre autorità rabbiniche ashkenazite dell’ ‘800 e ‘900 quali Shimshon Raphael Hirsch e Yitzkhaq ben Ya‘aqòv Reines (tra i padri del Sionismo religioso), giungendo sino alle voci della Modern Orthodoxy americana dei rabbini E. Berkovits e di J.D.B. Soloveitchick. Ma Rav Laras è anzitutto un rabbino italiano e la guida principale dei suoi studi fu il già ricordato rabbino capo di Torino Rav Dario Disegni, rinnovatore e promotore degli studi rabbinici in Italia nel secondo dopoguerra, assieme a Rav Elia Samuele Artom, con cui studiava Talmùd la mattina presto prima di andare a scuola, e, quando una mattina per caso il giovane Giuseppe era in ritardo per la sveglia, la mattina successiva Rav Artom anticipava la lezione alle quattro. Rav Laras –in privato lo ricorda spesso- crebbe studiando con Rav Dario Disegni, il quale voleva e si raccomandava che i “suoi” rabbini fossero buoni e preparati hazzanìm (cantori sinagogali), valevoli shochatìm (macellai rituali) e, quindi, tutto ciò premesso, avveduti e potenzialmente autonomi rabbanìm (rabbini), meglio se anche laureati, come auspicava. La “linea” di Rav Disegni, che appunto prevedeva, tra gli altri, il riferimento ad autorità halakhiche quali David Hofmann, era quella invalsa da secoli presso il rabbinato italiano, che ebbe come massimi interpreti nell’800 i grandi Maestri I. S. Reggio, S. D. Luzzatto ed E. Benamozegh. Tuttavia la tradizione ebraica italiana, ben prima dei Maestri appena ricordati, già da alcune centinaia di anni, accostava, pur se non sempre pacificamente, agli studi religiosi tradizionali, quelli scientifici e filosofici. Si pensi così a Autorità halakhiche riconosciute in tutto il mondo e ben studiate da Rav Laras, quali Ishmael ha-Cohen (Laudadio Sacerdoti, XVIII sec.) e ai suoi responsi (Zera Emeth); a Yitzkhàq Lampronti (XVII-XVIII sec.), autore del Pachàd Yitzkhàq –la prima monumentale enciclopedia halakhica al mondo-; al grande Malachì ha-Cohen (XVII-XVIII sec.), talmudista insigne autore del celebre scritto Yad Malachì, uno dei primi grandi dizionari talmudici; a Shimshòn Morpurgo (XVII-XVIII sec.), autore del noto testo di Halakhah Shemesh Tzedaqà; a Moshè Zaccuto noto come Remaz (XVII sec.), a Leon da Modena (XVII sec.) e alle sue teshuvoth, a Ovadyah Sforno (XV-XVI sec)e a Ovadyah da Bertinoro (XV-XVI sec.). Si tratta per lo più di Maestri che in genere seppero coniugare, pur con diversa intensità, la Halakhah con la cultura scientifica e umanistica loro contemporanea. È chiaro che vi è un precedente, un archetipo sefardita per eccellenza in relazione a tutto ciò, pur tra le mille difficoltà che sorgono e sempre sorgeranno in relazione alla sua comprensione, il Rambàm, Mosè Maimonide. E Rav Laras è appunto un insigne studioso del pensiero di Rambàm. Tuttavia, anche per davvero comprendere la passione maimonidea di Rav Laras, occorre fare un’incursione nel mondo della Halakhah. Il motivo è che –come ricorda spesso Rav Laras- pur conoscendo, recependo e apprezzando lo Shulkhàn ‘Arùkh di Rav Yosef Caro, gli italiani in genere tradizionalmente erano soliti apprendere e insegnare la Halakhah, al pari degli yemeniti, riferendosi in primis a Maimonide e alla sua opera di codificazione, il Mishneh Torah. Così gli fu insegnato e così gli venne confermato da due celeberrime autorità rabbiniche sefardite con cui ebbe modo più volte di studiare: da giovanissimo, seppur in poche occasioni, con Rav Bentziòn M. Hai ‘Uzziel, Rabbino Capo sefardita di Israele e autore dell’importante e celebre opera di Halakhah Mishpeté ‘Uzziel, che lo interrogò proprio sul Maimonide, raccomandandogli, in quanto italiano e sefardita, di basarsi in primis su Rambàm; successivamente, con l’amico e maestro Rav Yosef Kappakh (o Kafikh), autorità halakhica yemenita, traduttore e curatore contemporaneo dell’opera di Maimonide, anch’egli sostenitore della “vicinanza” tra italiani e yemeniti nella ricezione della linea maimonidea nei saperi e nella Halakhah. Non è dunque un caso, ad esempio, che Rav Laras sia inoltre legato da vincoli di amicizia al noto intellettuale israeliano e grande studioso di Maimonide Aviezer Ravitzky. Quando si tratta di Maestri contemporanei nell’ambito della Halakhah, chi conosce Rav Laras sa che egli ama rifarsi, oltreché a Rav ‘Uzziel, a Rav Hayyìm David ha-Levì e al suo caro amico e insigne autorità halakhica, scomparso nel 2003, Rav Shalom Messas, all’epoca Rabbino Capo di Gerusalemme. Vi è ancora un nome, molto celebre in Francia e ancor più in Israele, tra i Maestri di Rav Laras, quello di colui che più lo ha ispirato assieme a Rav D. Disegni, il grande Rav Leon Ashkenazi, di cui fu a lungo allievo e amico, sino agli ultimi giorni di vita di Manitou, come era chiamato dai suoi discepoli. E con Leon Ashkenazi, obbligatoriamente, si deve parlare di pensiero ebraico. Rav Laras, almeno in Italia, è tra i pochi ad aver conosciuto personalmente, incontrandoli in più occasioni, Martin Buber e lo scrittori Shemuel Agnon. Il Rav, inoltre, ha avuto modo di studiare, formarsi, incontrarsi e confrontarsi a lungo con tre pilastri del pensiero ebraico del ‘900, per lo più ignoti in Italia: Nechama Leibovits, Shemuel Hugo Bergman e Nathan Rotenstreich. Vi è, infine, un’altra amicizia intellettuale di cui è necessario e fondamentale rendere conto, quella tra Rav Laras e lo scomparso Meir Benayahu, figlio del Rabbino Capo di Israele Yitzkhaq Nissìm (con cui Rav Laras ebbe anche modo, seppur fugacemente, di studiare Halakhah). L’amicizia con Meir Benayahu è documentata da alcuni articoli a quattro mani, tramite i quali, Rav Laras entrò anche in contatto, come testimoniato da una corrispondenza, con Ghershom Scholem, che gli fece alcuni appunti, dandogli preziose indicazioni di studio e di ricerca. Ritroviamo, da ultimo, Rav Laras in alcune voci da lui redatte in quel grandioso monumento letterario della cultura ebraica che è la Encyclopedia Judaica. Chi scrive ha raccolto con fatica in vari anni, nei rari momenti (pochi) in cui Rav Laras si è “sbottonato” circa i suoi studi e le sue frequentazioni intellettuali, queste preziose informazioni, altrimenti scrupolosamente occultate dal Rav che è molto restio circa i suoi fatti privati, cercando adesso di restituire al lettore il complesso puzzle della biografia rabbinica di Giuseppe Laras. Ci sarebbe forse anche da aggiungere che Rav Laras ha ordinato molti rabbini; che il padre Samuele Guglielmo non voleva che facesse il rabbino (obbligandolo così prima a laurearsi in Giurisprudenza); che Leon Ashkenazi lo considerava una schiappa a calcio; che, infine, è stata la moglie, la Signora Elena Ester, a incoraggiarlo a studiare medicina come terza laurea, cosa che però il Rav dovette alla fine dissuadersi dal fare. Essendo giunto alle conclusioni, vorrei articolarle in tre brevi snodi. Il primo riguarda Rav Laras in quanto autorità rabbinica e Maestro dell’ebraismo italiano contemporaneo, tra gli ultimi eminenti esponenti, noti e apprezzati anche all’estero, della “linea italiana”, profondamente ancorata alla Tradizione e a questa dichiaratamente fedele, pur al contempo apprezzando l’apertura positiva e intelligente verso il mondo e la cultura esterni. Un modello di religiosità e di osservanza, quello proposto e vissuto dal Rav, poco incline a modernismi alla moda, come pure a rigorismi e a lassismi entrambi troppo facili per quanto opposti, eppure a suo modo elastico, alla ricerca –talora inquieta- di una maimonidea via mediana. Il secondo snodo riguarda Rav Laras in quanto interprete e studioso del pensiero ebraico. Rav Laras è tra i pochissimi che sappia davvero di che cosa si stia parlando, e uno dei suoi scritti più recenti “Ricordati dei giorni del mondo” ne rende ampiamente testimonianza. Rav Laras è infatti l’unico in Italia che poteva permettersi legittimamente di incrinare, come in parte sta cercando di fare, l’invalso trend di collegare il pensiero ebraico in primo luogo e unicamente al mondo della filosofia greca e occidentale in genere, piuttosto che a quello della Halakhah. Rav Laras sta così dando a molti intellettuali italiani -ebrei, cristiani e non credenti- un avvertimento culturale, sia per contenuti sia metodologico, circa la comprensione limitata -e dunque falsata ed erronea- del pensiero ebraico (specialmente moderno e contemporaneo) se sulla base principalmente delle opere, pur importanti e imprescindibili, di alcuni pensatori ebrei del Novecento molto noti (H. Cohen, L. Baeck, F. Rosenzweig, M. Buber, A. J. Heschel, E. Lévinas), che però sono per lo più abbastanza distanti dall’autocoscienza e dal generale sentire degli ebrei osservanti e dei rabbini, sia in Italia sia nel resto della Diaspora sia in Israele. Circa questo secondo snodo, infine, va detto che Rav Laras, anche per quel che concerne il Dialogo interreligioso ed ebraico-cristiano in particolare, ha insistito e continua a insistere sulla centralità di un positivo, continuo e costruttivo riferimento al pensiero sionista. Il terzo e ultimo snodo riguarda cosa di lui ebbe a scrivere un suo caro amico cristiano, che non potevo non menzionare, il card. Carlo Maria Martini, che così si espresse in una lettera che mi inviò alcuni anni fa: “Sono stato vicino all’impegno del Rav Giuseppe Laras per almeno ventidue anni, e anche in seguito ho potuto incontrarlo e godere della sua bontà e amicizia. Ho sempre visto in lui un vero gentiluomo, pieno di rispetto e di riserbo, ma insieme un uomo di profonda preghiera, un conoscitore esperto delle Sacre Scritture, un servitore di Dio e del Suo popolo”. Parimenti, così gli scrisse recentemente Rav Jonathan Sacks, emerito Grande Rabbino di Inghilterra e del Commonwealth: “It has been a great privilege knowing you these past years, and knowing how blessed the Jewish people is to have spiritual leaders like yourself. You are a man of wisdom, tolerance and great generosity of spirit, and may Hashem continue to bless all you do.” Per concludere, vorrei finire con una frase sintetica che Rav Laras usa spesso per introdurre il pensiero di uno dei più grandi Maestri di Israele di tutti i tempi, il cui studio molto ancora lo appassiona, Sa‘adyah Gaòn: “per ben credere occorre saper ben ragionare”. Credo che questa frase fotografi, a più livelli, e anche in filigrana, molto di Rav Laras. ‘Ad meah ve-‘esrìm, Rav Yoseph!